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L'ascesa dei prezzi delle materie prime e la buona fede: ipotesi di soluzioni


La situazione che interessa le imprese italiane impegnate in appalti pubblici in questo periodo è chiaramente influenzata dalla problematica costituita dal più che significativo aumento dei prezzi delle materie prime, in particolar modo acciaio e petrolio. È noto, infatti, come l’ANCE stia denunciando una situazione che è a dir poco allarmante per quegli appalti in corso la cui esecuzione non è prossima ad essere completata.

La situazione è, infatti, talmente grave che nemmeno i decreti ministeriali semestrali – che rilevano gli aumenti più significativi delle materie prime e che prevedono un sistema di riconoscimento economico per le imprese a fronte delle quantità di materiali utilizzati – riescono a ristorare per tempo gli appaltatori rispetto agli enormi esborsi in più che devono comunque anticipare. Tale misura, infatti, è stata elaborata per far fronte ad aumenti di prezzo per limitate categorie di beni, mentre oggi la situazione è ben più drammatica in quanto gli aumenti interessano la pressoché totalità dei materiali e non solo, visto che anche le fonti energetiche quali petrolio e gas hanno avuto una evidente impennata. Ad oggi (13 maggio 2022) il relativo Decreto è appena uscito e le imprese devono ancora ricevere i maggiori costi sopportati per i materiali acquistati nel secondo semestre del 2021, mentre hanno continuato a portare avanti e ad eseguire i lavori per quasi un anno (dal 1° luglio 2021 ad oggi), comprando i beni necessari con aumenti che definire eccezionali pare persino riduttivo.

Peraltro, tale situazione, addebitata alla crisi Ucraino-russa, viene da un periodo che aveva già messo in serissime difficoltà il comparto produttivo italiano dedito ai lavori pubblici a causa della pandemia Sars-Covid 19 e delle connesse difficoltà: è quindi del tutto possibile che oggi vi siano appaltatori che si trovino in una situazione assolutamente insostenibile, incapaci economicamente di portare a conclusione le opere nelle quali sono impegnati. Sul punto vale la pena di sottolineare come la stessa Corte di Cassazione ha affermato, nell’ambito della Relazione Tematica n. 56/2020, che “nei più disparati settori, che vanno dall’energia alla sanità, dai trasporti al turismo, dagli alimentari al terziario, pare evidente che dall’emergenza sanitaria, economica e sociale accesa su scala mondiale dal Covid-19 stia germinando conseguenze che esondano dagli argini della congiuntura finanziaria sfavorevole; dette conseguenze finiscono per riportare nei casi concreti tratti di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tanto marcati ed eloquenti da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto squilibrato, tanto in ragione dell’inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. “eccessiva onerosità diretta”), quanto a causa della speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d. “eccessiva onerosità indiretta”)” (Cass., Relazione Tematica n. 56/2020).

È dunque in questa situazione altamente drammatica che risulta indispensabile riuscire a trovare una soluzione che possa salvare da un lato l’interesse pubblico al completamento dell’opera e dall’altro la necessità dell’impresa di non essere schiacciata dall’aumento verticale dei prezzi delle materie prime e di mantenere quindi un equilibrio tra le obbligazioni del contratto di appalto.

È chiaro che in questo discorso il rifarsi alla possibilità riconosciuta dall’art. 1467 c.c. non aiuta, atteso che in quel caso potremmo solo ottenere lo scioglimento dal contratto e non la sua continuazione. Ovviamente questa soluzione rappresenta una sorta di ultima spiaggia per l’impresa, laddove i tentativi di riequilibrare il sinallagma non fossero sufficienti, condivisi e accettati dalle parti: occorre quindi provare ad immaginare quali ulteriori possibili soluzioni si potrebbero perseguire in questa situazione del tutto eccezionale e emergenziale prima di doversi arrendere allo scioglimento contrattuale.


Ebbene, il rimedio che sembra concretamente e utilmente perseguibile è legato ad una soluzione negoziale fondata sul principio generale della buona fede contrattuale. Questa, come noto, impone alle parti di comportarsi con lealtà e correttezza sia nella fase delle trattative e della stipula del contratto (1337 c.c.), e sia nella fase di esecuzione (1375 c.c.); inoltre il codice prescrive anche che il contratto debba essere interpretato secondo buona fede (1366 c.c.).

In particolare, la buona fede nell’esecuzione del contratto impone l’obbligo delle parti di informare l’altra circa il verificarsi di circostanze sopravvenute che la controparte non conosce. In tal senso, dunque, se la prestazione di una parte sta per divenire temporaneamente o definitivamente impossibile, questa è tenuta ad informare l’altra al fine di porre in essere gli opportuni rimedi per conseguire comunque la prestazione, ovvero per procurarsi la stessa altrove.

Non solo. La buona fede racchiude anche il dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse dell’altro o di evitare di recarle danno. È principio costantemente affermato dalla Suprema Corte che ha avuto modo di precisare che “la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione di un contratto (art. 1375 c.c.), concretizzandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto. La buona fede, pertanto, si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell'altra parte.” (Cass. civ. n. 13345/2006; analoga, fra le tante, Cass. civ., 12 dicembre 2019, n. 32478).

In tale contesto sorge anche l’obbligo di prestarsi alla rinegoziazione del contratto qualora, nel corso dell’esecuzione, sopravvengano mutamenti della base contrattuale. Infatti, in assenza di una specifica norma codicistica che disciplini la rinegoziazione dei contratti, l’obbligo di rinegoziazione del contratto può essere individuato nella clausola generale della buona fede: il contratto così potrà sopravvivere (principio di conservazione del contratto, “pacta sunt servanda”) ma adeguato e rinegoziato. In tal senso si è anche espressa la Corte di Cassazione nella Relazione Tematica n. 56/2020, con cui la Corte analizza la problematica relativa agli effetti dell’emergenza pandemica sui contratti di impresa: “il principio della vincolatività del contratto – in forza del quale pacta sunt servanda – debba essere contemperato con l’altro principio del rebus sic stantibus, qualora per effetto di accadimenti successivi alla stipulazione del contratto o ignoti al momento di questa o, ancora, estranei alla sfera di controllo delle parti, l’equilibrio del rapporto si mostra sostanzialmente snaturato. Ciò, peraltro, anche in assenza di specifiche clausole al riguardo, in nome del generale principio di “buona fede”, che ha valore d’ordine pubblico e si colloca tra i principi fondanti del nostro ordinamento sociale. La “buona fede”, infatti, impone un comportamento corretto e cooperativo fra le parti al fine di favorire il compimento del risultato negoziale, anche attraverso la disponibilità a riallinearne il contenuto alle mutate circostanze. Pertanto, la “buona fede” può salvaguardare il rapporto economico che le parti avevano originariamente inteso porre in essere, imponendo la rinegoziazione del contratto che si sia squilibrato, al fine di favorirne in tal modo la conservazione”.

La Relazione offre una ulteriore riflessione in tema di conservazione del contratto richiamando le clausole harship previste nella contrattazione internazionale e definite nei principi Unidroit (cfr. capitolo 6.2.1 e seguenti): le clausole di adeguamento c.d. di hardship richiamano un ventaglio di circostanze che, sopravvenute alla conclusione del contratto, ne alterano l'originario equilibrio e ne rendono difficoltosa l'esecuzione. In tali casi la clausola “hardship” appronta specifici rimedi: per un verso, la sospensione dell'esecuzione del contratto, per altro verso, la rinegoziazione, che sovente risulta la soluzione ottimale. È sufficiente leggere la definizione di “hardship” per comprenderne la portata e l’utilità che potrebbe avere nella situazione attuale: “Ricorre l’ipotesi di hardship quando si verificano eventi che alterano sostanzialmente l’equilibrio del contratto, o per l’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti, o per la diminuzione del valore della controprestazione, e

(a) gli eventi si verificano, o divengono noti alla parte svantaggiata, successivamente alla conclusione del contratto;

(b) gli eventi non potevano essere ragionevolmente presi in considerazione dalla parte svantaggiata al momento della conclusione del contratto;

(c) gli eventi sono estranei alla sfera di controllo della parte svantaggiata; e

(d) il rischio di tali eventi non era stato assunto dalla parte svantaggiata.”

Certo è evidente che vi sono concetti come “alterazione sostanziale dell’equilibrio del contratto” che necessitano di essere inquadrati e definiti nell’ambito degli appalti, ma di fatto una problematica simile la si incontra laddove si debba definire quale sia l’entità dell’alterazione per definirsi sostanziale (l’alea del 10%, parametro utilizzato in passato come limite oltre il quale i decreti ministeriali prevedevano il rimborso del caro-materiali, oppure l’8%, nuovo limite fissato dagli ultimi Decreti ministeriali, a seguito della pandemia Sars-Covid 19?).

In sostanza l’hardship risulta quasi assimilabile alla forza maggiore anche se la prima viene invocata laddove le parti siano interessate al mantenimento del contratto tramite rinegoziazione, mentre con la seconda si tende a giustificare il proprio operato e la volontà di scioglimento dal vincolo contrattuale.

Va, altresì, ricordato che il Legislatore con il decreto-legge 27 gennaio 2022, n. 4 ha disposto che, in considerazione della situazione storica presente, venga inserita nei documenti di gara dei prossimi appalti (sino al 31 dicembre 2023) la clausola di revisione prezzi prevista dall’art. 106, comma 1, lettera a) del D. Lgs. n. 50/2016 (i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi).


Circa la modalità in base alla quale si potrebbe intervenire al fine di riequilibrare il sinallagma contrattuale vi è anche l’utilizzo di una variante sulla scorta della previsione contenuta nell’art. 106, comma 1, lettera c), del D. Lgs. n. 50/2016, che prevede che “I contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: (…)

c) ove siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni, fatto salvo quanto previsto per gli appalti nei settori ordinari dal comma 7:

1) la necessità di modifica è determinata da circostanze impreviste e imprevedibili per l’amministrazione aggiudicatrice o per l’ente aggiudicatore. In tali casi le modifiche all’oggetto del contratto assumono la denominazione di varianti in corso d’opera. Tra le predette circostanze può rientrare anche la sopravvenienza di nuove disposizioni legislative o regolamentari o provvedimenti di autorità od enti preposti alla tutela di interessi rilevanti;

2) la modifica non altera la natura generale del contratto;”

In merito a tale ipotesi si evidenzia come la Regione Piemonte con comunicato del 2 dicembre 2021 (http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2021/48/attach/aa_aa_regione%20piemonte%20-%20comunicato_2021-12-01_79309.pdf) suggeriva, sia per le procedure di gara per le quali è stata predisposta l’aggiudicazione con conseguente contratto stipulato o da stipulare, sia per le procedure di gara per le quali è stata già presentata l’offerta ed è stata avviata la fase di valutazione, “l’applicazione delle previsioni di cui all’art. 106 del D.Lgs. 50/2016 comma 1 lettera “c” (variante in corso d’opera) o in alternativa comma 2, nel rispetto dei limiti ivi previsti. Con riferimento al comma 1 è infatti di tutta evidenza la riconducibilità del fenomeno del “caro materiali” a circostanza imprevista e imprevedibile, tanto nella forma quanto nella durata dello stesso, e dunque tale da legittimare la predisposizione di idonea variante in corso d’opera modificativa del contratto in esame (a prescindere dalla avvenuta stipula dello stesso)”.

Naturalmente, per una tale soluzione, è necessario considerare varianti anche quelle che non riguardano esclusivamente modifiche strutturali e funzionali dell’opera appaltata ma possano interessare anche gli elaborati economici (computi, stime, elenco prezzi, costi della sicurezza). Tali elementi, quindi, possono essere oggetto di modifica non solo con la variazione delle opere da realizzare tramite un cambiamento progettuale, ma anche con la modifica dei prezzi di appalto ove sia necessario (esecuzione che necessita di diverso e più costoso magistero che comporta un sovraprezzo).

La prima domanda che potrebbe porsi è se con l’utilizzo di una simile variante si possa qualificarla come “sostanziale”, ex arrt. 106, comma 4, D. Lgs. 50/2016., e quindi quando alteri in maniera sostanziale gli elementi essenziali del contratto originariamente pattuiti. A mio avviso non si dovrebbe rischiare in tal senso in quanto l’intervento sui prezzi ha l’unico scopo di riportare in equilibrio – al netto dell’alea contrattuale, ovviamente – il sinallagma che è risultato stravolto. Ne consegue che con un simile obiettivo risulta evidentemente sconfessato il timore che con le variate condizioni avrebbero potuto partecipare più e diversi candidati, atteso che l’equilibrio economico sarebbe sempre e comunque lievemente peggiore di quello originario di gara, considerato sì l’aumento dei prezzi, ma sempre al netto dell’alea. Anche le ulteriori condizioni contenute nel citato comma 4 dell’art. 106 del D.Lgs. 50/2016, non sembrano rilevanti: è ovvio, infatti, per quanto appena osservato, che la modifica non cambierebbe l’equilibrio economico in favore dell’aggiudicatario, restando appunto lievemente peggiore, e che la modifica non estenderebbe l’ambito di applicazione del contratto, intervenendo solo sul prezzo.


In entrambi i casi prospettati – negoziazione diretta o uso di variante – è evidente che risulta necessaria e fondamentale la volontà della Stazione appaltante: solo se questa si dimostrerà realistica e attenta alla situazione in essere si potrà provare a mantenere in vita un contratto di appalto che la situazione economica attuale ha messo in grave crisi se non, addirittura, ha ridotto in coma. Ovviamente ciò dovrebbe essere comunque gradito dalle amministrazioni pubbliche committenti atteso che la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta non le pone certo in una situazione preferibile, considerato che le stesse, prima di poter ribandire l’opera interrotta, sarebbero costrette ad aggiornare i prezzi delle lavorazioni (pena la gara deserta) e andrebbero certamente incontro ad un ribasso d’asta inferiore.

È altrettanto vero che anche la tipologia dell’amministrazione committente sarà rilevante per il buon fine del tentativo di riequilibrio contrattuale: si immagina infatti che le Stazioni appaltanti piccole o comunque non estese possano più facilmente addivenire a soluzioni negoziate o tramite variante, mentre quelle maggiori (si pensi ad esempio ad un Ministero) potrebbero trovare difficoltà nel determinarsi a prendere una delle due vie prospettate. EDIT 18-05-2022: è stato pubblicato il Decreto Legge 17 maggio 2022, n. 50

Misure urgenti in materia di politiche energetiche nazionali,

produttivita' delle imprese e attrazione degli investimenti, nonche'

in materia di politiche sociali e di crisi ucraina.

All'art. 26 hanno previsto un intervento tampone per gli appalti, sulla linea delle richieste avanzate dall'ANCE.

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